martedì 11 dicembre 2012

BERNARD PARMEGIANI - "VIOLOSTRIES" 1964



Parmegiani non è mai stato un personaggio popolare, benchè spesso sia stato citato da musicisiti elettronici celebri come Autechre e Aphex Twin e da giganti del rock alternativo come Turston Moore dei Sonic Youth.

Allievo della scuola di Schaeffer a due soli anni dall'inaugurazione, alle spalle una carriera da mimo (allievo anche lì di un mito come Lacoq) che segna la sua vita: Il mimo è ironicamente la chiave per interpretare l'opera di Parmegiani. Parmegiani fa apparire dal nulla suoni e rumori che richiamano la natura stessa senza essere imitazioni, essi esistono poichè egli li genera e dispone allo stesso modo dei suoni e rumori che "vivono" attorno a noi; tuttavia da esperto di acusmatica opera l'incantesimo da dietro le quinte, donando all'ascoltatore/spettatore l'impressione di aver sviluppato un terzo orecchio attraverso il quale "vedere" avvenimenti sonori. Mai il termine "schizofonia" aveva avuto più senso che nell'opera di Parmegiani.

Benchè le vette siano da cercare in "De Natura Sonorum" e in "La Creation du Monde", per lo più a causa della fase embrionale della ricerca di Parmegiani, in "Violostries" abbiamo una risposta esaustiva alla domanda "Perchè Parmegiani non è popolare"? Perchè è stato uno dei primi esponenti della musica concreta ad esibire un carattere musicale a dir poco selvatico, portando l'opera di Schaeffer alle estreme conseguenze sonore, curandone la produzione al massimo, estremizzandone il contenuto e il significato.
Attraverso strumenti acustici vari, il violino di Devy Erlih in primis, e alcuni nastri magnetici Parmegiani combina, in un tripudio elettroacustico, droni e scoppi divertiti di rumore a momenti più formali, legati al sottile equilibrio fra presenza sonora e silenzio. Un'opera di costruzione e decostruzione incessanti valorizzata dalle tecniche di produzione di Parmegiani tecnico del suono: è infatti importante notare come il grande valore di questo primo lavoro è la vitalità dei suoni e rumori contenuti in questa "scatola", i quali letteralmente guizzano da sinistra e destra, si allontanano e avvicinano, galoppano per poi rallentare al trotto per poi di nuovo sprofondare in una sconcertante staticità. Tutti questi elementi sono strettamente legati alla musica classica. Solo in un grande Auditorium infatti è possibile apprezzare al cento per cento la motilità della musica  suonata da un'orchestra numericamente imponenete. In questo "Violostries" tuttavia possiamo godere dello stesso effetto magico di dislocazione del suono.

Una sperimentazione necessaria, della quale è possibile apprezzare l'urgenza, l'imprescindibile desiderio di evengelizzare il suno come forma "prima" dell'esperienza umana, come potrebbe essere altrimenti? Si sente prima ancora di vedere. La necessità di avvertire l'avvicinamento del predatore è la stessa dell'ascoltare questo quasi-capolavoro in silenzio e con delle buone apparecchiature, ipod compresi, per apprezzare lo stesso stato di tensione concentrata e distensione liberatoria.

Essenziale anche per conoscere una fase della noise music nella quale mettere ordine al caos era il fine primario della composizione.

Bernard Parmegiani – "Violostries" 1992


Brevissimo estratto da "De Natura Sonorum", una delle composizioni più elettroniche e contemporanee di un vero e proprio profeta della noise music.



mercoledì 5 dicembre 2012

ZERO KAMA "THE SECRET EYE OF L.A.Y.L.A.H." 1984




La necessità di inserire Zero Kama con "The Secret Eye Of Laylah" nella collezione della Domus è posta a metà strada fra il desiderio weird e l'anelito intellettuale/artistico; due poli fra i quali a loro volta sono situati l'azionismo viennese, l'opera di Austin Osman Spare, Crowley e i Throbbing Gristle. In breve tutto il necessario per intavolare un discorso labirintico e vanamente retorico.

Oppure si può cominciare notando che gli ultimi tre nominati sono fortuitamente (Per noi) collegati fra loro: Spare era un seguace di Crowley, sebbene il pensiero legato alla logomachia di Zos e ai sigilli sia ancora più anarchico di quello del chaos magician per eccellenza; Genesis P-Orridge è il fondatore del "Temple Of The Psychick Youth" , una "associazione" ispirata al pensiero di Spare e composta per lo più da esponenti di spicco della scena post-industrial, come John Balance dei Coil, tanto per citarne uno.

Nei primi anni ottanta Michael DeWitt pubblica il primo album sotto il moniker Korpses Katatonic: "Sensitive Liberated Autistiks", opera prima di stampo puramente (post)industriale, tutto sommato banale a confronto delle prime produzioni dei Zos Kias (Pre Coil) e che molto deve ai Throbbing Gristle, Maurizio Bianchi/Sacher Pelz, Spk; tuttavia il teatrino del perturbante apre il sipario per brani che somigliano a incubi al rallentatore o passeggiate, assolutamente compiaciute, attraverso corsie buie di manicomi abbandonati. Il gusto per il morboso e la mancanza di contenuti sono quelle tipiche dell'harsh noise privo di sfondi teorici, tuttavia la forma è praticamente già quella matura del successivo "Eye Of Laylah", citazione di una frase magica di Crowley, praticamente un sigillo rudimentale che sta per "Love Alway Yeldeth Love Alway Hardeneth". Ci troviamo di fronte ad un aderente alla corrente industriale evidentemente contagiato dalla frenesia esoterica che genererà alcuni mostri, sacri/profani, come Death In June, Nurse With Wound, Current93.

Passiamo in volata all'azionismo viennese. DeWitt, col nuovo moniker Zero Kama, è anche un pittore e performer; negli stessi anni e in seguito sarà attivo sia singolarmente che in compagnia di alcuni esponenti del movimento azionista, tra cui Hermann Nitsch. Le componenti fondamentali del disco sono da ricercarsi nel sangue, nel corpo, nel rituale della provocazione di artisti sovversivi quali Nitsch e Schwarzkogler, tanto per citare i più celebri ed estremi. La stessa musica che fa da sfondo alle particolarissime percussioni adoperate da DeWitt è ispirata, nemmeno troppo liberamente, alle composizioni dronistiche di Nitsch.
Ma perchè parlo di percussioni "particolari"?
Semplicemente perchè questo disco/cassetta è per gran parte suonato usando ossa umane immerse in un'ambientazione puramente rituale nella quale si snoda tutta la tradizione sciamanica, dai primi umani alla Golden Dawn.

E proprio questo è il punto!
La specialità di quest'opera risiede nel suo essere testimonianza in musica di COME deve essere un disco di musica rituale. Fra una citazione di Kenneth Anger, una di Crowley, una di Spare l'ascoltatore precipita inerme in un collage divenuto ormai proprio dell'artista che non è più ispirato ma "è" il mago. Questo è uno dei fondamenti della Chaos Magik ma anche della musica rituale. Il performer non deve suonare il rituale ma officiarlo! E' la stessa differenze che passa fra un prete che dice messa e uno che la celebra.
Non vi sarà nessuna catarsi, o transunstansazione per i credenti, senza che l'officiante sia (Non sembri) il rappresentante del divino o trascendentale.
Attraverso 11 sigilli, sottoscritti all'interno del sigillo maggiore che dona conoscenza e veglia sul progetto Zero Kama, DeWitt sguinzaglia forze angoscianti e remote, risalenti alle primissime forme rituali umane, anche un ascoltatore all'oscuro dell'utilizzo di ossa nell'esecuzione riconoscerebbe inconsciamente il suono che si propaga delicatamente negli incavi. E se quest'opera fosse anche suonata attraverso percussioni legnose, il dubbio sarebbe comunque serpeggiante.

Tuttavia il cervello non rifiuta l'ascolto, non vi è nulla di macabro, di putrefatto o decomposto come molti vagheggiano. La dimensione da cui Zos proviene è una pozza di pura forza vitale, energetica, basata su sentimenti vicini, addirittura quotidiani ma che vengono censurati dal contratto sociale stipulato dal super-ego. Zos vuole la morte degli altri, Zos vuole regnare all'inferno piuttosto che servire in paradiso, Zos vuole stuprare, Zos è noi. E' tutt'uno con la volontà di potenza.

Infine, a rituale concluso, non vi è più nulla di perturbante o inquietante, tutto è allo scoperto e nemmeno per un istante si è stati consapevoli di questa metamorfosi graduale ma abnorme: non ci sentiamo diversi ma avendo ascoltato dall'inizio alla fine siamo complici subliminalmente. Abbiamo rinnegato il dio trascendentale in favore del dio dell'immanente e non ce ne siamo nemmeno resi conto. Zero Kama ci ha mostrato quanto siamo cechi, sordi e muti.


Zero Kama - "The Secret Eye Of Laylah" 1984


domenica 25 novembre 2012

ATRAX MORGUE/MORDER MACHINE "DEATHSHOW" 1998



Come già visto nella precedente versione della Domus Marco Corbelli (aka Atrax Morgue) è un convitato di pietra alla tavolata della noise music.
L'enorme merito del giovane anti-artista è stato affrancare l'arte da se stessa, risultando a conti fatti l'unico ad aver liberato la macchina dalla scomoda presenza dell'umano; l'apatia del prodotto finale risulta essere simmetrica rispetto all'emozionalità della lavorazione. La differenza con progetti precedenti come MB o Whitehouse è la presenza di un manifesto non scritto ma testimoniato da interviste e performances devastanti, capaci di veicolare quasi alla perfezione un messaggio nichilista, fatto di volontà di potenza rivolta al nulla e pateticamente rigirata verso se stessi e la propria interiorità; un urlo che dichiara il fallimento della pratica laddove la teoria Nitzcheana appare illuminante e ispiratrice.
un messaggio, come già detto, veicolato "quasi" alla perfezione, giacchè il baratro nel quale Atrax Morgue/Morder Machine/Kranivm ci getta è aconcettualizzabile, impossibile da comunicare, tormenta l'artista fino a condurlo alla follia e all'auto-annientamento (Vedi Corbelli, sic Nietzche).
 
Con pochi mezzi (un synth analogico, un microfono, pedale multieffetto, mangianastri) e tanta cattiva volontà M.C. ha travolto i giganti della musica sperimentale italiana, sussurrando sinistramente alle orecchie e ai cuori di coloro i quali vollero percepire questa assenza. Attenzione tuttavia a etichettare frettolosamente Atrax Morgue come un progetto misantropico (sebbene il tema dell'odio sia sempre centrale): il punto è proprio che nella dimensione di Corbelli l'odio è antitesi dell'amore e quest'ultimo è tutt'uno con la morte, la quale a sua volta è frutto dell'odio e dell'amore indistintamente (In un'ottica tesi/antitesi/sintesi); e così via ad nauseam, rendendo impossibile distinguere gesti di rabbia inconsulta da azioni dettate dalla noia o dall'ispirazione. A tutto ciò si va a sommare la già nominata apatia dei "componimenti" , caldamente desiderata dal performer,  riassumibile nel titolo "what's a human?", domanda che viene profferita con spirito alieno al mondo, alla società, alla moralità.
Come ebbe a dire Adorno in un momento di perdita totale della speranza "Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie"; in quest'epoca "medioevale" invasa da zombie-concettuali tanto vale commettere direttamente un atto di barbarie.

Anzi! Un delitto.

 Atrax Morgue/Morder Machine - "Deathshow" 1998

           
                   Francis Bacon - "Study For The Human Body"



sabato 24 novembre 2012

EMIL BEAULIEAU - "KILL THE ALL-NOISE JAPANESE ARTISTS" 1995



                          
Ron Lessard, aka Emil Beaulieau, avendo rappresentato un punto di incontro fondamentale tra l'Europa, il Giappone e gli Stati Uniti, essendo stato il mediatore ideale fra avanguardia colta e noise amatoriale, è ritenuto il padrino della noise music.
Tutti coloro i quali si sono fatti un nome, anche per poco tempo, nella scena noise sono passati sotto la RRRecords di Lessard o sono entrati in contatto con lui. Come unico punto di riferimento per l'etichetta il principio secondo cui solo la novità è realmente sovversiva: gli artisti già avviati puzzano di vecchio o sanno cavarsela da soli.

Maestro in quasi tutte le tecniche dell'harsh noise, Lessard ha trasformato il suo act Emil Beaulieau in una leggenda, unendo un'attitudine senza compromessi ad un talento naturale per la performance in puro stile dada (Schwitters): macchina e uomo si fondono in un'installazione vivente con pochi precedenti nella storia dell'anti-musica.

L'album che la domus offre stasera è un sincero tributo ai grandi esponenti del Japanoise, alcuni dei quali, come Merzbow e Incapacitans sono amici di vecchia data di Lessard,  il titolo stesso dell'album è una citazione da un'intervista a Masami Akita nella quale l'artista esprime il desiderio di voler uccidere attraverso la sua musica il "troppo rumoroso noise giapponese".
Il mezzo che veicola il senso dell'album è il gioco di parole, la perdita di senso attraverso la manipolazione dei vari elementi del discorso: Lo stile dell'artista citato attraverso storpiatura del nome nel titolo viene a sua volta storpiato e parodizzato in un vortice che centrifuga qualsiasi ambizione artistica, in favore di una sensazionale padronanza del mestiere del rumorista: ogni cosa si trova esattamente al suo posto, il che è a dir poco strano, più o meno come se i mobili di una casa travolta da un tornado ritrovassero una posizione coerente all'interno del vortice. Per la serie:"la cacofonia c'è ma non si sente". Al punto che praticamente chiunque abbia una vaga dimestichezza con il noise può accostarsi a quest'opera, merito anche dell'assoluta inimicizia fra Lessard e il computer, dettaglio che permette al performer di avere un rapporto fisico con le sue macchine, simile a quello fra un cane e il suo padrone: una sincera amicizia votata alla ricerca di un equilibrio che impedisca alla parte istintiva canina e alla parte "alienata" dell'uomo di prendere il sopravvento sulla relazione semi-simbiotica.

Sfortunatamente non possiamo godere delle performances di Lessard mentre ascoltiamo questo disco (se non per mezzo di You Tube.)

Emil Beaulieau - "Kill the all-noise Japanese Artists" 1995




sabato 17 novembre 2012

FENNESZ - "FIELD RECORDINGS 1995:2002" 2004



Piccola ma corposa raccolta uscita un bel pò di anni fa sotto la Touch, imperdibile sia per chi volesse una rapida introduzione all'opera del musicista austriaco sia per chi ha apprezzato il lavori più recenti e desiderasse una comoda retrospettiva.

All'interno troviamo tredici brani di elettronica ibrida, a metà fra il glitch e il drone che non disdegnano massicce dosi di white noise per lo più delicato e ambizioso nella forma ritmata e ammiccante in cui Fennesz l'ha plasmato misericordiosamente.
Il primo dettaglio che salta all'occhio è l'incerta connotazione ambient: i lavori giovanili di questo "terraformer" del suono non hanno ancora trovato un canale di sfogo adeguato e risultano mancanti sotto più punti di vista; di contro vi è la netta sensazione che gran parte delle tracce mettano in mostra una personalità ben definita che trae forza dal mettere in ordine il chaos del rumore libero. Gli spazi immensi degli ultimi album sono qui molto più angusti o al contrario sprofondano in un vuoto soffocante, gli equilibrismi sono ingenui ma prendono spunto da topos collaudati dai grandi esponeti della minimal, come Sakamoto (Che ha collaborato con lo stesso Fennesz). La banalità, non è mistero, può divenire citazionismo colto e queste prime tracce sono scrigni ricchi di richiami ad opera di un magnifico "parvenu" del post-ambient. D'altronde l'attitudine musicale di Fennesz, benchè tuttora eversiva e sui generis, si è negli ultimi anni ricongiunta con la matrice ambient (Da "post" a "pre" in un giro di pista) favorendo la costruzione di landscapes molto personali ma
a tratti dispersivi e pedanti.

Raccolta valida e ricca di spunti, l'archeologia di un chitarrista che ha rivoluzionato l'approccio ai pedali nonchè di un sound-artist che si è profondamente radicato nel dualismo strumento/computer.
"Field Recordings" contiente anche un inedito, per la precisione la traccia numero uno "Good Man".

Fennesz - "Field Recordings 1995:2002"  2004

Usato su Discogs


venerdì 9 novembre 2012

RAMLEH - "HOLE IN THE HEART" 2009




Quest'anno i Ramleh celebrano trent'anni di attività sulla scena power electronics. In questa sede si propone dunque, in qualità di tributo (atto a far conoscere il gruppo inglese ai passanti), una raccolta comprendente una vecchia cassetta audio del 1987 omonima di questa uscita a due CD.

Il più grande merito dei Ramleh è aver interrotto in gran parte una lunga tradizione di vergognoso manierismo che vedeva i Whitehouse al centro di un pantheon da assurgere a modello stilistico assoluto. Riuscendo a rompere, con atto titanico, le catene di una tale miseria i Ramleh hanno stabilito nuovi canoni assolutamente fondamentali per il noise più "harsh", senza mai raggiungere le vette di certe produzioni firmate Merzbow ma assurgendo allo status di cult band.

L'ingenuità tipica del genere power electronics, al pari di quella propria di molte produzioni "post-moderne", è una delle grandi piaghe che affliggono il campo creativo e personale della ricerca rumoristica: nella grande maggioranza dei casi il rumore da fonte "microscopica" (elettricità) viene trattato alla pari del rumore di provenienza "macroscopica" (dei materiali) ottenendo muri di suono aggressivi, iper-dadaisti, fondamentalmente kitsch e paradossalmente barocchi, difficilmente gestibili anche attraverso un atteggiamento freddamente programmatico. Soltanto pochi hanno tentato di scavalcare il muro dell'anonima amatorialità (Uno fra tanti il suicida Corbelli, AKA Atrax Morgue).
I Ramleh sono tra coloro i quali si sono distinti nella ricerca di un nuovo modo di fare power electronics, un modo che predilige l'interiorità tormentata al conato isterico. Al punto che esistono due Ramleh: il trio, quale band in tutto e per tutto, dotata di tutte le strumentazioni della classica formazione rock e il duo, composto dallo zoccolo duro del gruppo alle prese con macchine ed eventuali strumentazioni tradizionali.
In entrambi i casi l'improvvisazione accidentale è stata fatta propria, alimentando un sound già di per sè naufrago ed eremitico.

Considerando l'età della prima edizione in cassetta di "Hole in the Heart" si può comodamente affermare che i Ramleh sono stati tra i primi a sperimentare con i bordoni, applicando la forma denominata "drone" ad una sfera extra-ambientale, contaminandola con una più tradizionale struttura/canzone, liberandola in un certo senso dalla maledizione della tediosità e accompagnandola alla gioia selvaggia dell'amplificazione come media preferito; accompagnando lo stream of consciousness vocale con il soliloquio del rumore che fluisce all'interno di quattro mura in maniera del tutto libera.
Il tutto soffre ancora di una certa irrilevanza che non fa gridare al miracolo, forse dovuta alla mancanza di spessore artistico-filosofico, ma se tutto ciò che i Ramleh hanno fatto è stato frutto del puro istinto ben venga, d'altronde come fa notare Deleuze in "Logica del senso" lo spessore è una ricerca tipica dell' adulto e conformista quanto inutile; lo spostamento orizzontale è la nuova frontiera delle arti.

Ramleh - "Hole in the Heart" 2009 (download narod.ru: inserire codice numerico e alla pagina successiva cliccare sul link)


mercoledì 31 ottobre 2012

OTOMO YOSHIHIDE - "CATHODE/ANODE" 1999/2001

 

Compositore ispirato a John Cage, al free jazz e al noise cosmico giapponese, Yoshihide fu agli inizi divulgato e prodotto da John Zorn assieme al gruppo di cui è "guru" Ground Zero. Sin dalle prime produzioni risalta l'amore spassionato per il rimodellamento dei suoni e per il collage, passioni che troveranno il loro apice in "Revolutionary Pechinese Opera". Nel periodo della maturità Yoshihide esplora la musica concreta e proprio la coppia "Cathode/Anode", composta con un'ensamble messo insieme per l'occasione, rimanda più di ogni altra sua fatica all'opera di Subotnick.

"Cathode" risulta quasi strategico: ogni rumore trova spazio in una casella; ogni cosa sembra essere al suo posto. Come in un'orchestra di spettri antenati fanno la loro apparizione gli strumenti della tradizione, spinti alle estreme possibilità. Solitudini e spazi aperti nei quali agiscono creature senza futuro, attori di teatro kabuki tragicamente surreali e abnormi.
"Anode", con un minore processamento dei suoni, sembra quasi a voler ricordare che senza intervento umano un rumore rimane un anomalia dal valore musicale nullo. Ecco allora che il discorso musicale si fa balbettante, asmatico, sofferente di Tourette. Tutto nel totale rispetto del contesto: la cultura musicale della tradizione fa ancora da base alle selvagge orge sonore di Yoshihide. Tre paesaggi sonori e una variazione per un quadro generale di noise che sembra voler scavare il silenzio nella desolazione; nessuna comunicazione possibile: ci troviamo al cospetto delle forze della natura.

Sperimentazione pura dunque, che come ogni viaggio degno di questo nome non finisce mai.
Per questo motivo l'opera di Otomo Yoshide risulta sempre sul filo del rasoio, nevrotica, agitata, pervasa da un forte senso di incompiuto. 
Due album decisamente autoreferenziali e derivati ma di grande bellezza e intensità, pregni di tutto ciò che è il Giappone nella sua incessante riscoperta identitaria.


Otomo Yoshihide - "Cathode"  1999
                              "Anode"     2001